Annamaria Crasti, responsabile Anvgd (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) di Milano per i rapporti con le scuole, è un’ esule istriana che ha trascorso parte della sua fanciullezza ad Orsera d’Istria, nel territorio di Pola, oggi parte della Croazia. Nell’articolo riportato qui di seguito, ricorda uno dei tragici eventi che portarono ad un’ accelerazione dell’esodo Giuliano Dalmata, la strage di Vergarolla, che provocò 65 vittime accertate e della quale ancora oggi non si conoscono i mandanti.
Erano le 14.15 del 18 Agosto 1946 quando un assordante boato investì migliaia di polesani che si erano radunati sulla spiaggia di Vergarolla per vedere le gare natatorie in corso nello specchio di mare antistante. Pochi istanti dopo, dispersosi il fumo provocato da una tremenda esplosione, agli occhi di coloro che erano rimasti fortunatamente illesi apparve una scena apocalittica di corpi dilaniati e di feriti imploranti aiuto con grida lancinanti. Molte famiglie erano lì convenute per trascorrere un momento di serenità, quasi a voler vincere l’insicurezza e la paura che, da troppo tempo, colmavano gli animi di quella gente nata e cresciuta alla frontiera orientale del nostro Paese.
La furia titina, dopo il 25 Aprile 1945, si era abbattuta con sempre maggior forza sugli inermi istriani, abbandonati a sé stessi da un governo che a Roma a tutto pensava fuorché a tutelarli.
Italiani che, con il passare dei mesi dalla fine del conflitto, avevano perso la speranza di poter continuare a vivere nei luoghi natii. In quegli anni una parte della politica italiana (comunisti e socialisti) non vedevano di buon auspicio il rientro degli esuli in Patria e, ideologicamente, non si sentivano poi molto distanti dai comunisti capitanati da Tito.
Annamaria Crasti ricorda quei giorni: «Ad Orsera, il mio piccolo paese, in quel periodo la speranza non era ancora morta. In continuazione, dall’alto di Montracher, si guardava il mare, a Sud, verso Pola, amministrata da Inglesi ed Americani; si desiderava a tutti i costi, veder apparire le navi di “quei maledetti Inglesi”, come diceva nonna Anna». «”maledetti” perché “non arrivavano mai”», continua. «Il mare lo si scrutava invano, Inglesi ed Americani non avevano alcuna intenzione di osteggiare l’Unione Sovietica, che sosteneva la causa di Tito.
Non c’era alcuna volontà di venire in soccorso degli italiani; eravamo solo mezzo milione, poca cosa! Non abbastanza per correre il rischio di scatenare una terza guerra mondiale. A Pola, come in ogni punto dell’ Istria, si andava avanti, vivendo una vita densa di ansia e di tensioni, una vita spezzata dall’angoscia. Ci venivano a portar via, di notte, sfondando le porte, rubandoci tutto; e la maggioranza dei prigionieri non faceva più ritorno».
Anna ricorda che «in quest’atmosfera, a Pola, la Pietas Julia, una vecchia società sportiva, decide di proporre una giornata di gare di nuoto e di canottaggio per sollevare lo spirito dei polesani e anche per ribadire la propria italianità. La cittadinanza accorre in massa a Vergarolla. Intere famiglie: madri, padri, nonni, nipoti, figli, sorelle, fratelli. I pochi assenti erano impegnati al lavoro.
Alle gare del mattino partecipano i bambini, più tardi è il turno dei più grandi. Sulla spiaggia, Americani ed Inglesi avevano abbandonato parecchi ordigni bellici; quasi tutta la stampa di allora parlava di mine – il numero esatto probabilmente era di 28. Quegli ordigni non erano considerati pericolosi, perché erano stati disinnescati. I ragazzini, ogni giorno, ci giocavano mettendosi a cavalcioni, appoggiando indumenti ed asciugamani prima di buttarsi nelle limpide acque per fare il bagno. Nessuno, né adulti né bambini, ne ha paura». Così ricorda Annamaria.
Dopo le gare mattutine ci si raduna per il pranzo. Tutti hanno portato da casa qualcosa da consumare in compagnia di parenti ed amici. «Nella tarda mattinata si è notato un unico elemento strano», così ricorda Anna. «Tutti sono in costume da bagno, c’è solo un uomo, completamente vestito, che si aggira vicino agli ordigni, ma, in quel momento, nessuno fa troppa attenzione alla sua presenza».
La giornata prosegue con chi è in acqua, in pineta a respirare il balsamico profumo dei pini, a godersi un po’ di frescura. Bambini e ragazzini, giocano sulla spiaggia. All’improvviso si sente un colpo secco, come uno sparo. Un’esplosione, spaventosa; si alza un’altissima colonna di fumo; il cielo si oscura. Grida, lamenti strazianti. Si capisce che è avvenuto qualcosa di tremendo.
Chi era in acqua si salva, ma non è così per le persone vicine agli ordigni, in pineta o i bambini sulla spiaggia. «Pochi minuti e davanti agli occhi di chi è scampato allo scoppio vede uno spettacolo orrendo. La spiaggia è disseminata di persone decapitate, altre prive di mani e di gambe, altre ridotte a pezzi», così riporta un articolo tratto da “La Voce Libera ” del 19 Agosto.
Chi è scampato allo scoppio è in cerca dei propri cari. Mamme e papà cercano i loro figli che, a loro volta, li cercano. Scene indescrivibili, sui volti di quelle persone solo terrore e panico.
Molti, probabilmente una cinquantina tra bambini, ragazzi, donne, uomini, anziani non verranno mai più ritrovati. I loro corpi non esistono più sono stati polverizzati. Brandelli di carne umana galleggiano sul mare rosso di sangue; i gabbiani, litigano tra loro, contendendosi quei poveri resti per averli come cibo. Sono 64 o forse 65 i morti ufficiali. I mezzi del Gma (Governo militare alleato ) e la Croce Rossa arrivano veloci.
All’ospedale di Pola è di guardia Geppino Micheletti, medico che operava a Pola alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quel giorno è di turno all’ospedale in sostituzione del professor Caravetta.
Alla spiaggia di Vergarolla erano presenti i suoi due bambini Carlo, di nove anni e Renzo, di sei con il fratello e la cognata. All’ospedale cominciano ad arrivare i feriti, i corpi martoriati e i resti di coloro che si è riuscito a raccogliere. Micheletti chiede dei figli sapendoli alla spiaggia.
Alla notizia che tra i vivi non risultano esserci, né i figli né i parenti, rimane al suo posto prendendosi cura dei feriti, sapendo della morte dei figli. Per 26 ore continua ad operare e a medicare assieme ad un medico inglese, senza un attimo di tregua, senza cedere alla stanchezza salvando così centinaia di vite. Il corpo del figlio Carlo viene ritrovato, ma quello di Renzo non se ne ha traccia. Probabilmente troppo vicino all’ordigno al momento dell’esplosione, viene ritrovata solo una scarpetta.
Il dottor Micheletti medico-chirurgo dell’ospedale cittadino diventa suo malgrado un eroe in quella tremenda mattina. Continuerà il suo lavoro a Narni cittadina dell’Umbria, sempre conservando nella tasca del suo camice una scarpina di Renzo alla quale di tanto in tanto dava una furtiva carezza. Ai funerali delle vittime partecipa tutta la popolazione polesana, compresi alcuni simpatizzanti di Tito.
La gente è compatta, dignitosa e silenziosa. Ufficialmente, di questa strage non esistono i mandanti, non c’è un colpevole. «Ma il buon senso, la storia, le nostre storie personali non ci fanno aver dubbi sugli assassini di Vergarolla», dichiara Annamaria.
Il Governo italiano di allora, così come i partiti in Italia ed i titini hanno sempre accusato di negligenza Americani ed Inglesi, per non aver rimosso gli ordigni dalla spiaggia. Per gli Alleati la strage è stata “un increscioso incidente” e mai si sono pronunciati sui responsabili, badando a non indagare su eventuali mandanti di un così efferato delitto. Quella di Vergarolla è la più grande strage della Repubblica italiana, avvenuta in territorio italiano nell’Agosto 1946, in Istria, quando la regione faceva ancora parte dell’Italia.
Per 74 anni solo la pietà di chi è istriano ha sostenuto con accorata partecipazione e vicinanza il ricordo, il dolore, di coloro che hanno perduto i loro familiari. Migliaia di persone che, nei loro cuori, hanno custodito la memoria di quell’eccidio di cui furono testimoni oculari o eredi di coloro che vissero la tragedia in prima persona.
La strage di Vergarolla “convinse” molti italiani ancora presenti in Istria a lasciare quella terra. Fu un segnale forte e inequivocabile che i comunisti titini non si sarebbero fermati nella loro opera di pulizia etnica. Dopo le foibe, le sparizioni, le torture, da quel 18 Agosto 1946 gli italiani rimasti in quelle terre non ebbero più la forza di sopportare ulteriori minacce. Sono trascorsi 74 anni, ma gli esuli non vogliono dimenticare.
Chi è nato in quelle terre ha la consapevolezza che non è stata resa giustizia alle donne, agli uomini ai giovani e agli anziani morti in quella strage, ma ancora più insopportabile è sapere che nessuno ha pagato per le loro vite così barbaramente rubate.
immagine Spiaggia di Vergarolla al momento dell’esplosione – crediti Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana, Istriana, Fiumana, Dalmata